Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano di passaporto svedese dell’Università del Piemonte Orientale, cittadino onorario di Novara, prigioniero dal 2016 nelle carceri di Teheran con l’accusa di spionaggio a favore di Israele, rischia l’esecuzione della condanna a morte che pende su suo capo dell’ottobre 2017. A farlo sapere è Amnesty International, che da tempo segue il caso. Il rischio che l’impiccagione venga eseguita deriva dal fatto che un tribunale svedese ha confermato in appello la condanna all’ergastolo dell’ex dirigente delle prigioni iraniane Hamid Nouri per il ruolo avuto nel massacro delle carceri del 1988. L’uomo è detenuto nelle carceri di Stoccolma.
Il 20 dicembre, un giorno dopo la sentenza svedese, gli organi d’informazione ufficiali iraniani hanno diffuso un video di propaganda contenente la “confessione” forzata di Djalali – il ricercatore universitario che aveva lavorato a Novara all’Università del Piemonte Orientale – nella quale egli dichiara di essere una spia israeliana. Djalali ha sempre negato queste accuse, sostenendo di essere stato costretto a fare quelle dichiarazioni sotto tortura.
Secondo quanto riferito dai familiari di Djalali, il 22 dicembre un funzionario del potere giudiziario iraniano ha visitato il detenuto informandolo che il verdetto di colpevolezza e la condanna a morte erano stati “confermati” e che sarebbero stati “attuati presto”. Inoltre il funzionario avrebbe affermato che la Svezia sta tenendo in carcere Hamid Nouri affinché l’Iran rimetta in libertà Djalali. Una ricostruzione destituita di ogni fondamento, in quanto il ricercatore novarese d’adozione è in carcere dal 2016, cioè da oltre due anni prima dell’arresto di Nouri.
A Novara i tanti amici di Ahmad che lavorano all’Università del Piemonte Orientale sono con il fiato sospeso, perché in questi giorni in Iran è in corso una vera e propria ondata di esecuzioni, almeno 115 solo nel mese di novembre.