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Cronaca dal Nord Ovest | 30 aprile 2019, 10:58

In libreria “La donna di picche” di Remo Bassini

Un giallo ambientato nelle nebbie Vercellesi – Ma il libro è soprattutto l'incontro fra tre solitudini

In libreria “La donna di picche” di Remo Bassini

Remo Bassini, La donna di picche (che sabato 11 presenterai al Salone del libro) è il tuo decimo romanzo, oltre due raccolte di racconti e molto altro ancora. Ma dodici libri di fiction in soli 17 anni sono quasi un record, soprattutto se rapportati alla qualità, essendo non romanzetti di genere ma opere vere. Un bilancio, sia pur provvisorio?

Certi giorni sono soddisfatto del mio cammino nell'editoria, altri giorni no. Ma non me la prendo con gli altri, me la prendo maggiormente con me stesso. Essere approdato a Fanucci, avere pubblicato due libri in tre anni (La notte del santo e La donna di picche) con questa casa editrice e avere la fiducia di Sergio Fanucci per me è motivo di grande soddisfazione. Ma dalla mia scrittura vorrei sempre qualcosa di più. Un bilancio complessivo, comunque, non riesco a farlo,ma posso dire cosa provo per La donna di picche. L'ho scritto nelle dediche finali. Ho scritto: A mio figlio Federico Libero Bassini detto 'Cico': questo libro è speciale, come lui.

Partiamo subito da questo nuovo libro. Di cosa si tratta? Ti andrebbe di partire dal titolo per spiegare - nei limiti del possibile, essendo un thriller, dunque affidato al gusto per la sorpresa e la suspense - qualcosa dell’argomento che hai voluto trattare?

Viaggiano due treni in corsa: il giallo e, nell'altro binario, la storia di tre solitudini; quella del sostituto commissario Pietro Dallavita; quella di una sua collega cinquantenne, l'ispettrice Micaela Spini; quella di una giovane maestra di Vercelli, Lucilla Malerba. Nel primo treno viaggia quindi un'indagine difficile: in una chiesa, all'alba, hanno ammazzato una donna, che è la madre di Lucilla Malerba, con tre colpi di pistola in faccia. Nessuno ci capisce niente, non ci sono indizi o sospettati, niente di niente, solo la nebbia di Vercelli. E ci sono, qui siamo nel secondo treno, le storie e gli amori di queste tre persone. La donna di picche è l'anello di congiunzione di tutto. È una donna che ama follemente. Ama gli uomini della sua vita, a partire dal padre morto suicida, e lascia sempre un segno. Sono la donna di picche, quella che non dimentichi...

Nel libro c’è come ‘protagonista’, oltre Torino, anche Vercelli. In alcuni tuoi libri passati ci sono “pezzi di Piemonte” come Torino e la Vasesia. Non solo, ci sono Novara, San Nazzaro e il lago d'Orta, che torna anche in questo libro. Ma parliamo di Vercelli, la città dove abiti e da cui, almeno nella narrativa hai sempre mantenuto le distanze, nel senso che hai evitato, negli altri romanzi, qualsiasi riferimento diretto, anche se simbolicamente qualcosa talvolta traspariva. Perché dunque Vercelli proprio adesso?

La storia della Donna di picche ha cominciato a prendere forma nella mia mente mentre camminavo per le vie e i vicoli tra piazza Cavour e via Duomo. È nata a Vercelli e sulle rive del fiume Sesia, insomma, nei mesi della primavera e dell'estate del 2018. Accanto a Vercelli ci sono anche Torino e il tempio di Saletta, a Costanzana. Stavolta, comunque, come dici giustamente tu, Vercelli è protagonista di questo mio libro. Diciamo che ho voluto sdebitarmi con questa città che mi ha dato tanto.

Torniamo ancora su Vercelli, non tanto per parlare di una città tutto sommato anomala nel panorama italiano (non so sei d’accordo, ma Vercelli non assomiglia a nessun altra, nel bene come nel male), quanto piuttosto per i discutere i rapporti fra uno scrittore e i luoghi in cui abita più o meno da sempre. Dunque Bassini e Vercelli?

Vercelli, per me, è la nebbia, che sembra qualcosa di triste ma che ti dà anche la sensazione di un qualcosa che ti avvolge e protegge; Vercelli è la stazione, dove andavo tutte le mattine per andare a Torino in università e dove tornavo per andare a lavorare in fabbrica nel pomeriggio; Vercelli è il fiume Sesia, dove da piccolo facevo il bagno; Vercelli è il giornale La Sesia che ho diretto per nove anni; Vercelli è il camposanto dove sono sepolti mia mamma e due miei fratelli, Fabrizio e Moreno, e, ancora, Vercelli è la città dei miei diciott'anni: tanti negozi, tante librerie (dove acquistai tutti i libri di Salgari), tanti cinema, tanti bar aperti fino a tardi. I bar, per me, hanno un fascino particolare. Tutto iniziò, credo, un mattino in cui decisi di fare la mia prima taglia da scuola, avevo 17 anni. Mi rintanai in un bar che non c'è più, la Cremeria Sant'Antonio, e lessi L'inverno del nostro scontento, di Steinbeck. Quando entrava qualcuno, sobbalzavo: temevo fosse qualche amico dei miei. Anni dopo, in altri bar, mi sarei portato appresso il computer per scrivere le mie storie. Vercelli, insomma, è anche i miei libri.

Tornando alla Donna di picche, si tratta di un libro nato per una collana specifica che si chiama non a caso Nero Italiano. A quali regole hai dovuto attenerti (con te steso più che con l’editore) per entrare dentro a una forma letteraria – non parlerei di genere –tanto facile da leggere e gustarsi quanto invece impegnativa per chi scrive?

Ho pubblicato dodici libri, ma Bastardo posto, che fu pubblicato da Luigi Bernardi per l'editore Perdisa, e La donna di picche, sono stati i libri più sofferti, e quindi sono quelli a cui sono maggiormente affezionato. Entrambi hanno avuto una storia simile. Li ho scritti, li ho inviati all'editore, per poi avere un ripensamento sulla parte finale. Giocoforza, cambiando il finale, ho dovuto e soprattutto voluto riscriverli una seconda volta, con maggior convinzione.


Quando ti accingi a scrivere un libro, prima di iniziare, hai un mentre un lettore ideale? Pensi di rivolgerti nello specifico a qualcuno (o a certe categorie, classi sociali, eccetera) oppure i problemi dello scrittore sono altri?

Quando iniziai a scrivere avevo in mente i ragazzi che avevo conosciuto nei miei sette anni di fabbrica. Molti di loro avevano studiato, ma la fabbrica li aveva abbruttiti, leggevano la Gazzetta dello sport, parlavano solo di figa e macchine. Diciamo che quei ragazzi io non li ho mai dimenticati. Per diverso tempo, dopo aver scritto un libro, prima di riscriverlo lo facevo leggere a persone che leggevano poco per mancanza di tempo, ho in mente una mia collega che lavorava e poi doveva badare ai suoi genitori non autosufficienti, o con una bassa scolarizzazione. Ultimamente al massimo li legge e corregge un po' mia moglie Francesca, ma la fedeltà a una certo linguaggio semplice mi è rimasto.

Lavori per sottrazione o per aggiunte? Mi spiego meglio: nel caso della Donna di picche, dove tutto è congegnato come un orologio svizzero, segui degli schemi rigorosi fin dall’inizio oppure c’è spazio anche per l’improvvisazione o per le varianti dell’ultimo momento?

Inizio a pensare a un libro camminando, per mesi e mesi, senza scrivere una parola. Poi, una volta definita la storia che ho in mente, mi metto a scrivere concedendomi la libertà di stravolgere tutto, sempre. Quando scrivo voglio sempre sorprendermi. Le cosiddette scalette, che son cosa da farsi e che consiglio ma che non sono per me, le faccio nella fase di riscrittura, ma si tratta di una sorta di prove del nove, per controllare se tutto funziona. Nella fase di riscrittura, e anche nell'editing, continuo a tagliare e aggiungere, aggiungere e tagliare. Complicando così la vita degli editor, ma tant'è.

Provando a giudicarti da esterno o a guardarti dal di fuori, c’è un fil rouge o un denominatore comune che lega tutti i tuoi romanzi. A me sembra di sì, ma vorrei che tirassi fuori tu le tematiche da collegare, perlomeno quelle che a te paiono evidenti.

Nei miei libri ci sono sempre i ricordi e la nostalgia per il passato e per i sogni del passato. Quel che avremmo voluto fare e non abbiamo fatto. C'è la rabbia contro tutte le ingiustizie. E c'è una vicinanza al dolore, che mi deriva dall'aver sofferto di epilessia e, ancor più, dall'aver perso due fratelli: Fabrizio, che aveva 10 mesi e che morì quando facevo la prima elementare, e Moreno, che se n'è andato a 29 anni, nel 2005. Insomma, nei miei libri do sempre voce agli sconfitti. Per dirla alla Bukowski, Amo i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai, quelli persi, andati, spiritati, fottuti. quelli con l’anima in fiamme.

La donna di picche è una sconfitta?

Anche lei, come me, è dalla parte degli sconfitti. Ma non è una carta perdente, anzi.

 




Guido Michelone

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