Attualità - 21 settembre 2025, 07:00

Il Biennio Rosso in Italia (1919-1920)

Il Biennio Rosso in Italia (1919-1920)

All’indomani della Prima guerra mondiale, l’Italia si trovava in una situazione drammatica dal punto di vista sociale, politico ed economico. La fine delle ostilità, nel 1918, non portò quella stabilità tanto attesa, ma aprì una fase segnata da profonda incertezza. L’inflazione, l’aumento vertiginoso dei prezzi, la disoccupazione dilagante e un debito pubblico senza precedenti colpirono duramente le classi popolari, aumentando malcontento e difficoltà.

Le masse di reduci si sentirono ingannate: dopo aver combattuto per la patria, si ritrovavano senza un futuro, privi di un impiego, di terra e delle riforme che sindacati, forze socialiste e contadine chiedevano per una società più giusta. Aumentava, in questo contesto, il divario sociale, alimentando sfiducia, rabbia e frustrazione.

A partire dal 1917, l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre in Russia divenne un importante punto di riferimento per le classi operaie e contadine, che vedevano nella presa del potere da parte dei Soviet un modello concreto per rovesciare l’ordine sociale vigente. Allo stesso tempo, quella situazione generava allarme tra le classi dirigenti, che temevano che il contagio rivoluzionario potesse estendersi all’Italia. Fu in questo clima che si aprì il Biennio Rosso: un intenso periodo di manifestazioni, scioperi, occupazione di fabbriche e terre, che aumentò la polarizzazione ideologica e lasciò un segno profondo nella memoria d’Italia.

Il Piemonte: laboratorio delle lotte operaie e culla della reazione

È il 1919 e dopo le privazioni della Prima guerra mondiale, le strade delle principali città piemontesi brulicano di rabbia. I sindacati organizzano scioperi, le leghe contadine rivendicano terra, aumenti salariali e orari più umani, in un contesto dove ogni contrasto può degenerare in uno scontro.

È a Torino che il Biennio Rosso trova la sua massima espressione: la capitale industriale per antonomasia, la “città della FIAT”, vede nascere i Consigli di Fabbrica, che prendono progressivamente il comando delle attività, organizzano la produzione e discutono delle loro condizioni di vita e di lavoro, sfidando dal basso il potere padronale. A partire dal marzo 1920 scoppia lo sciopero delle lancette, seguito, in settembre, dalla grande occupazione delle fabbriche: gli operai prendono possesso degli stabilimenti e autogestiscono ogni attività.

Ma quella che Gramsci vede come l’inizio di un profondo mutamento sociale si rivela un vicolo cieco. Le divisioni all’interno del movimento operaio, l’arretramento delle forze sindacali e l’incrinarsi del fronte unico aprono la porta alla reazione, che sfocerà nella comparsa delle squadre fasciste e in una dura repressione, come quella che colpisce Torino nel dicembre 1922, con l’uccisione del sindacalista Pietro Ferrero.

Ovviamente le campagne non restano a guardare. Nelle pianure di Novara e Vercelli i braccianti organizzano scioperi per ottenere aumenti salariali, una riduzione delle ore di lavoro, una gestione più giusta delle terre. Le leghe rosse conquistano posizioni e una forza senza precedenti. La reazione dei grandi proprietari non si fa attendere: per contrastarle, questi ultimi finanziano le nascenti squadre fasciste, che prendono d’assalto le sezioni sindacali, bruciano le case del popolo e colpiscono a bastonate ogni manifestazione di dissenso.

Anche in città come Alessandria e Biella, centri industriali dal tessuto sociale complesso, le lotte operaie e contadine danno forma a un autunno caldo che sarà presto stroncato dalla forza delle armi e dalla macchina organizzativa fascista. Le persone che un tempo manifestavano per una società più giusta si trovano a dover combattere per la loro incolumità, per salvare le loro vite dalla vendetta delle squadre d’azione.

La Lombardia: il motore industriale e culla del fascismo

Anche in Lombardia l’aria è densa di rabbia, paure e speranze. La situazione sociale è incandescente: il grande motore industriale d’Italia sembra sul punto di stravolgere ogni ordine costituito. Le fabbriche si fermano, le campagne si infiammano, le organizzazioni operaie sfidano a viso aperto il padronato.

Milano, la capitale industriale per eccellenza, è il laboratorio dove ogni contraddizione entra in collisione: gli operai, organizzati dal Partito Socialista e dalla FIOM, occupano le principali fabbriche - Alfa Romeo, Breda, Pirelli - prendendone in gestione le attività. Ed è in questo contesto che qua, il 23 marzo 1919, Benito Mussolini fonda i Fasci di Combattimento, come alternativa tanto al socialismo quanto al liberismo.

Pochi mesi dopo, il 15 aprile, le squadre fasciste assaltano la sede del giornale socialista Avanti! e danno inizio a una campagna di violenze che colpisce sindacati, militanti e contadini, aprendo la porta a una dura reazione autoritaria.

Nelle campagne di Mantova, l’arretratezza delle strutture agrarie si unisce alla forza delle leghe contadine - quelle rosse, a sfondo socialista, e quelle bianche, d’ispirazione cattolica - che lottano per aumenti salariali, per un’adeguazione delle giornate lavorative, per l’assegnazione delle terre incolte. I proprietari, dal canto loro, si organizzano per combattere quella che considerano una sfida all’ordine sociale, ingaggiando le squadre fasciste di Roberto Farinacci per colpire le organizzazioni contadine. La situazione sfocerà in una spirale di violenza che insanguinerà tutto il territorio.

A Varese, che per la sua posizione di confine con la Svizzera presenta una situazione sociale del tutto particolare, le lotte operaie si concentrano sulle principali industrie tessili e meccaniche. Gli scioperi per aumenti salariali, per orari di lavoro più umani e per il riconoscimento dei sindacati si scontrano con una risposta padronale che si fa ogni giorno più intransigente. La presenza delle squadre d’azione fasciste, che organizzano ronde punitive per intimidire i lavoratori, aumenta il clima di paura, senza però fermare le manifestazioni di protesta.

Le proteste si estendono a tutta la Lombardia: a Brescia le manifestazioni operaie si scontrano con le squadre fasciste, a Bergamo le leghe contadine subiscono una dura reazione, mentre a Pavia e Lodi i braccianti lottano per terra, salari equi e una vita dignitosa. Un incendio sociale che sarà domato dal pugno di ferro del fascismo, aprendo una delle pagine più cupe della storia d’Italia.

La Liguria: porti, arsenali e ribellioni popolari

In Liguria il malessere sociale si fa ogni giorno più acuto. Porti, industrie e strade delle principali città vivono un clima incandescente, dove ogni manifestazione può sfociare in uno scontro. La Liguria è una delle principali polveriere d’Italia.

È a Genova che le tensioni sono più forti: il porto, crocevia di mercantili e persone, riunisce centinaia di portuali — i camalli — e di metalmeccanici delle principali industrie. Nella calda estate del 1919, scioperi, saccheggi e manifestazioni riempiono le strade, aumentando l’instabilità sociale.

A partire dal settembre 1920, le fabbriche, come l’Ansaldo e l’Ilva, vengono occupate dai lavoratori, che prendono in pugno impianti, macchinari e magazzini, autogestendo per un breve momento la produzione. La Camera del Lavoro di Genova diventa il centro delle vertenze, un punto di riferimento per le lotte operaie, che in seguito subiranno la dura repressione delle squadre fasciste.

Anche Savona vive momenti di grande fermento sociale. Il suo porto è, come Genova, un crocevia importante per il traffico di merci, e sulle banchine si concentrano le rivendicazioni dei portuali per aumenti salariali, orari umani e una gestione più democratica del lavoro.

Nelle principali industrie siderurgiche e manifatturiere, come quelle di Vado Ligure, si organizzano scioperi che sfociano in scontri, con la successiva irruzione delle squadre fasciste per reprimere ogni manifestazione. La situazione, a partire dalla fine del 1919, si fa sempre più tesa, aprendo la porta a quella che sarà una delle stagioni più buie per le classi operaie savonesi.

Ma è a La Spezia che il Biennio Rosso tocca il suo apice di radicalità. Città portuale e industriale, con una forte presenza operaia, La Spezia diventa una delle roccaforti del sindacalismo rivoluzionario e delle idee anarchiche.

L’11 giugno 1919 scoppia un’insurrezione che porta a disordini, saccheggi e al momentaneo controllo della situazione da parte degli insorti, senza che l’esercito intervenga. A partire dai Fatti di Sarzana (luglio 1921), La Spezia sarà un baluardo della resistenza antifascista, dove l’idea di un altro mondo rimane viva nonostante arresti, perquisizioni e scontri.

La “Rivoluzione Mancata”: eredità e memoria

Il Biennio Rosso si concluse senza quella rivoluzione che molti sognavano. Le divisioni interne, l’assenza di un’unica guida e la reazione delle classi dominanti – media, industriale, agraria - indebolirono il movimento operaio. La macchina statale, con polizia, esercito e squadre fasciste, colpì senza esitazione sindacati, camere del lavoro e circoli.

È da quella sconfitta che prese slancio l’ascesa del fascismo di Benito Mussolini: le camicie nere combatterono ogni forma di resistenza, aprendo le porte a un regime autoritario che per oltre un ventennio plasmò le sorti del Paese.

Le ripercussioni del Biennio Rosso restano profonde: quella coscienza di classe forgiata dal conflitto continuò ad alimentare le battaglie per la democrazia, l’emancipazione sociale e i diritti, dal dopoguerra alla Resistenza, dalla Costituzione alle lotte sindacali.

Il nostro gruppo editoriale è radicato nel cuore pulsante del Nord Italia, con sedi strategiche a Torino, Biella, Vercelli, Novara, Mantova, Varese, Genova e Savona, per raccontare da vicino le storie e le voci di queste città.

Valeria Toscano

TI RICORDI COSA È SUCCESSO L’ANNO SCORSO A SETTEMBRE?
Ascolta il podcast con le notizie da non dimenticare

Ascolta "Un anno di notizie da non dimenticare 2024" su Spreaker.
SU